domenica 22 febbraio 2009

Quando le parole diventano invisibil la Repubblica - 24 agosto 2008


Terra di nessuno
di Delia Altavilla

A volte la vita sa essere lineare come la corsa di un autobus. L’autobus che tutte le mattine prendo per andare a lavoro. Io i numeri non li vedo, neanche da vicino. Cerco di intuirli, ma c’è sempre il rischio di scambiare l’1 con il 7 o il 3 con l’8. Quando me ne accorgo e devo scendere, perché ho sbagliato, mi assale un senso di impotenza e di rabbia. Succede sempre più spesso. Basterebbe installare un semplice computer con segnalatore acustico. Sono lì, in quell’autobus, tutte le mattine. Volti ancora assonnati, zaini ingombranti, odore di dopobarba e il suono sparato che proviene da un auricolare. Sono proprio io, chiusa nel capotto, mentre cerco di afferrare gli sguardi della gente, veloci come l’autobus nella corsia preferenziale. Ho appena lasciato la notte per incontrare, smarrita davanti alla mia tazza di caffè, la ferita del giorno. Com’è stata materna la notte. Accogliente mi ha preso per mano e trascinato insonne nel buio. Ma il giorno, no. Il giorno mi assale con tutte le sue domande, con la paura di sbagliare, di non riconoscere i volti.
Le bussole, intanto, si aprono e si chiudono in uno spasmo che segue il mio desiderio finalmente di dormire, ora che la luce mi trafigge e vorrei trovare riparo nelle viscere del sonno.
Eccola, la mia fermata. Ho imparato a riconoscerla. Quante cose ho imparato! Attraverso impaurita via Libertà. Le auto corrono, le vedo all’ultimo istante. Chiudo gli occhi e via. Una frenata brusca, lo spostamento dell’aria a pochi centimetri dal mio corpo.
In ufficio non tutti sanno della mia malattia e anche quelli che adesso sanno non hanno capito. E’ un moderno open space, efficiente, monotono come l’arredamento. Le postazioni sono tutte uguali, nessuno sforzo, pannelli azzurri, pieni di polvere, dove gli occhi affondano stanchi. Questa ci marcia, ha trovato la strada per non lavorare. Come fa…In fondo, ci prende in giro. Ha solo degli occhiali più spessi. Per anni ho inserito con diligenza inutili dati in una procedura. E’ stato questo il mio lavoro, poi un giorno, avvilita, sconfitta, ma anche sollevata, ho chiesto di cambiare mansioni. Una visita medica, un responso secco, definitivo, mi ha tolto il vecchio lavoro, ma ancora ne aspetto uno nuovo.
Percorro in silenzio il corridoio che mi separa dalla mia postazione. Un saluto a chi già ha cominciato a lavorare, un cenno stanco di risposta, appendo il cappotto e mi seggo. Accendo il pc e subito si fa buio dentro di me, anche sotto la luce bianca dei neon. Ma, quando il tempo è buono, dai vetri sporchi delle finestre intravedo l’azzurro del cielo. Mi alzo di scatto, prendo le sigarette e corro fuori a fumare. C’è un bel giardino attorno all’ufficio. Piante rare, arbusti alti e un grande prato pieno di vasi fioriti. Accendo la mia sigaretta, lentamente la consumo fra il giallo delle dita e il grigio delle sbarre che circondano l’edificio. Le mie labbra inseguono curve di luce, mentre gli occhi, stropicciati di sonno, boccheggiano. Tutto intorno puzza di uova marce, mi si conficca nei polmoni. E lì la mia sigaretta, si appiccia nelle vene, impregna la pelle. Mi pizzica il naso, starnuti che sventrano il cervello. Un colpo di tosse, ancora una boccata. Schizzi di colore fuggono rapiti dal cielo. La chiamano la malattia dei vecchi la mia. Avevo solo trent’anni quando, del tutto ignara, un oculista, dall’alto della sua onnipotenza, di fronte a un improvviso abbassamento della vista sentenziava: “Signora, lei ancora non lo sa?”. “Cosa?”. “In poco tempo non riuscirà più a leggere ne a guidare”. Io schiantata sulla sedia non ci credevo, ma di certo non sarebbe bastata la mia volontà: “Non ci sono cure. Lei è giovane e imparerà a usare la parte sana della sua retina.” Ho imparato, ho imparato tante cose da allora. A fidarmi dei rumori, a memorizzare gli odori, a lasciare l’immaginazione riempire le cornici ormai vuote. La mia vita invasa da ingranditori, lettori ottici e dalla stessa domanda: perché i miei occhi non rispondono più? Una emorragia lenta, silenziosa che sfibra la carne. Ho conosciuto l’indifferenza di chi mi ha detto devi avere pazienza, la distanza di chi ha avuto paura e la comprensione di chi comunque ha accettato l’angoscia rimanendomi accanto. Mai più i miei occhi scorreranno veloci le righe di un libro. Vivrò giorno dopo giorno la paura di perdermi tra i frammenti delle mie immagini confuse. E’ il destino, il destino di noi che viviamo nella terra di mezzo, nella terra di nessuno, dove tutto rimane incomprensibile, sospeso. In quella linea immaginaria di chi non appartiene.

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